Dopo la Xylella:
Il dibattito sul futuro dell’olivicoltura in Puglia


Raccogliendo le olive a casa di Gazi. (2014)

Testo & immagini di
János Chialá.
Italia, 2015-2019


Per chi come me è cresciuto in un paese della Puglia, l’olivicoltura è sempre stato un legame con il passato. Vivendo letteralmente in mezzo agli ulivi, alcuni dei quali già producevano olio ai tempi di Gesù di Nazareth, non ci siamo mai fatti molte domande sul loro futuro. Gli ulivi ci sono sempre stati, abbiamo pensato, e ci saranno sempre, uguali a se stessi e quasi al di fuori della storia degli esseri umani, la cui breve vita deve sembrargli una fugace apparizione, simile alle ombre frenetiche di un filmato accelerato in cui gli ulivi rimangono immobili, sullo sfondo.

Dal 2013 tutto sembra essere rallentato, come nella scena di un film in cui succede qualcosa di molto brutto: intere zone del Salento, all’estremità meridionale della Puglia, sono ormai un cimitero di alberi disseccati dove riecheggia il suono delle motoseghe, mentre più a nord le pale meccaniche eradicano interi uliveti sani nel tentativo di fermare l’epidemia, riempiendo i camion di legna da ardere. Durante l’ultima stagione di raccolta, descritta da molti come la peggiore che si ricordi, in molti paesi del Salento i frantoi sono rimasti chiusi, forse per la prima volta dopo secoli.

Presi dal panico, siamo corsi dai nostri alberi a scrutare preoccupati ogni rametto secco o movimento sospetto attorno ai nostri campi, terrorizzati di ricevere un’ordinanza di eradicazione, e forse per la prima volta nella nostra vita ci siamo chiesti cosa sarebbe la Puglia senza ulivi, e cosa significano i nostri ulivi per noi. Nel fare questo, ci siamo finalmente fatti qualche domanda sull’olivicoltura, e dove pensavamo che ci fosse solo il passato abbiamo invece trovato una realtà in continua evoluzione, con una storia complessa, un presente problematico e un futuro incerto, fatti di scelte su cosa conservare e cosa rinnovare, cosa piantare e come farlo, con quali scopi e con quali conseguenze.

Da un certo punto di vista, questa evoluzione è la continuazione di processi millenari portati avanti dalla creatività e dal lavoro degli agricoltori, i quali per esempio sono stati capaci di trasformare delle piccole bacche verdi e velenose che crescevano nelle Americhe nei rossi e nutrienti pomodori che mangiamo oggi, e degli spinosi cespugli di olivastro nei maestosi ulivi che oggi caratterizzano i paesaggi di tutto il bacino del Mediterraneo. Questi processi, che hanno cambiato le piante che vengono coltivate tanto quanto hanno cambiato i territori su cui vengono coltivate e le persone che le coltivano, hanno subito una fortissima accelerazione con l’avvento della modernità, sia grazie alle possibilità offerte dalla scienza e la tecnologia che a causa delle nuove necessità di un mondo sempre più interconnesso e trasformato dall’essere umano. Non è un caso che mentre l’informatica muove i suoi primi passi nel “3.0”, l’intelligenza artificiale, nelle facoltà di agraria e alle fiere del settore si parla già di “agricoltura 4.0”, che aggiunge droni e cloud computing alle tecnologie di precisione dell’agricoltura 3.0 e alle macchine e sostanze chimiche dell’agricoltura 2.0, la Rivoluzione Verde che a partire dagli anni cinquanta ha contribuito all’aumento della popolazione mondiale da 2,5 a più di 7 miliardi di persone, e che oggi è descritta da molti come l’unico modo possibile di sfamarle tutte quante.

Quasi tutte le principali filiere agro-alimentari (1) stanno attraversando una fase di fortissima riorganizzazione e modernizzazione, in un processo a catena nel quale l’evoluzione di un certo tipo di coltivazione in un certo territorio influenza il prezzo globale del prodotto, spesso costringendo agricoltori in territori completamente diversi ad adattarsi in qualche modo, e in alcuni casi a qualunque costo, se vogliono rimanere sul mercato e continuare a lavorare. Questo è particolarmente vero per un mercato globalizzato come quello dell’olio d’oliva, che veniva commerciato su larghissima scala già nell’antichità. Gli olivicoltori delle diverse sponde del Mediterraneo si fanno una concorrenza spietata fin dai tempi dell’impero Romano (2), e oggi la domanda è infinitamente più grande, con milioni di nuovi consumatori in tutto il mondo.

Ma se in altre coltivazioni adattarsi al mercato può voler dire usare sementi o tecniche diverse da un anno all’altro, nell’olivicoltura stiamo parlando di alberi che impiegano decine di anni a crescere e diventare produttivi, il che richiede un certo grado di pianificazione, e una visione del futuro. “Gli ulivi non si piantano per stessi,” ci hanno spiegato tante volte i nostri genitori mostrandoci gli alberelli piantati dai nostri nonni, “ma per i propri figli, e per quelli che verranno dopo di loro.” Cioè proprio noi, che inventavamo scuse fantasiose per non essere trascinati a raccogliere le olive ogni fredda domenica d’autunno e poter rimanere a casa a giocare ai videogiochi.

Oltre ad essere un legame con il passato, simboleggiato dai tronchi degli ulivi le cui ruvide cortecce assomigliavano ai visi dei nonni che li avevano piantati, l’olivicoltura è anche un lascito alle generazioni che verranno dopo, e un delicato investimento a lungo termine che ha deciso le sorti di tante famiglie e di interi territori, facendone un legame altrettanto forte con il futuro.

Per capire quanto questo futuro sia incerto oggi basta andare la mattina presto nelle campagne del Salento, dove passeggiando tra gli ulivi disseccati non ci vuole molto a trovare agricoltori a cui fare domande su quello che sta succedendo. Quello che colpisce delle loro risposte è quanto siano piene di problemi che vanno ben oltre il batterio Xylella fastidiosa: i soldi della PAC, le gelate e il clima che cambia, le importazioni di olio tunisino, gli attacchi della mosca olearia e di tanti altri parassiti e malattie delle piante e, su tutti, il prezzo dell’olio d’oliva, troppo basso per tirare avanti. I disseccamenti degli ulivi di solito vengono lasciati alla fine, descritti come il colpo di grazia ad un settore già in ginocchio.

Così come noi siamo poi cresciuti negli anni e abbiamo cambiato il nostro rapporto personale con gli ulivi di famiglia, sostituendo i videogame con i social media dove orgogliosamente postiamo selfie mentre raccogliamo le olive, i cambiamenti in atto nelle nostre società stanno rimettendo in discussione il nostro rapporto collettivo con gli ulivi del nostro territorio, cioè l’olivicoltura.

Paesi come la Spagna e la Tunisia hanno investito tantissimo in nuovi impianti e nuove tecnologie, e una serie di accordi commerciali ha aperto i mercati Europei a quantità sempre più grandi di olio d’oliva prodotto a costi sempre più bassi, mettendo in seria difficoltà gli olivicoltori Italiani con i loro uliveti secolari e le loro tecniche tradizionali. E mentre ai tempi dei nostri nonni una bottiglia d’olio era considerata un pagamento sufficiente per un’intera giornata di lavoro nei campi, oggi i supermercati della GDO (3) ne vendono milioni a prezzi che possono scendere fino a tre euro al litro, molto al di sotto dei costi di produzione sostenuti dagli olivicoltori. Ma forse è proprio il lavoro a valere di meno, in un’epoca di precarietà e sfruttamento che ci costringe a fare la spesa al supermercato per risparmiare il più possibile e persino sull’olio che mangiamo, che ormai paghiamo molto meno di quello che mettiamo nelle macchine.

E i problemi sembrano andare ben oltre gli ulivi e il prezzo dell’olio d’oliva: se nel 2018 si è fatto un gran parlare della “crisi dell’olivicoltura” causata dalla Xylella, una gelata catastrofica e dal fatto che una parte significativa dell’olio venduto come italiano è in realtà un blend (4) di oli stranieri, nel 2017 c’è stata la “guerra del grano” in cui i coltivatori hanno bloccato i porti contro le importazioni dall’estero, mentre il 2019 ha già visto una “crisi del latte” che ha portato i pastori sardi a versare il loro prodotto per strada piuttosto che venderlo sotto costo e poi ancora una “crisi agrumicola” che ha costretto tanti produttori a lasciar marcire le arance a terra perché sul mercato valgono meno di quello che costerebbe raccoglierle.

Gran parte dell’agricoltura di questo paese sembra essere in crisi, resa economicamente sostenibile solo grazie ai soldi della PAC, il sussidio agricolo dell’Unione Europea (5), e di certo non pagando abbastanza da offrire un futuro ai giovani Pugliesi, molti dei quali scelgono altre professioni o di emigrare altrove, abbandonando le campagne e gli ulivi che i loro nonni hanno piantato per loro, il che forse spiega i capelli bianchi di quasi tutte le persone che si vedono lavorare nei campi la mattina presto e pone seri dubbi sul futuro dell’olivicoltura in Puglia.

“La coltivazione tradizionale dell’ulivo si caratterizza per gli alti costi, che oggi superano i prezzi di vendita dell’olio, almeno al netto dei sussidi UE”, commentava uno dei principali esperti di olivicoltura in Italia nel 2010, aggiungendo che “in Italia, la maggiore voce di spesa è quella per la manodopera, sempre più rara e cara.” E poiché la produzione degli ulivi non può essere aumentata a piacere, e i costi di questa produzione sono estremamente difficili da abbassare, o si trova un modo di “valorizzare la produzione portando le quotazioni a livelli remunerativi per gli olivicoltori, oppure all’olivicoltura non resta che una radicale innovazione, cosa impossibile da ottenere coi modelli tradizionali che sono sotto gli occhi di tutti”, una convinzione che già da più di un decennio porta molti a sostenere la necessità di introdurre tecniche ed impianti più moderni, e di ripensare al divieto assoluto di espiantare ulivi in Puglia, sancito da una legge regionale. Il modello più discusso, già diffuso nel mondo e specialmente in Spagna, è quello superintensivo, che impiega varietà di ulivo a crescita veloce e altamente produttive, in impianti di migliaia di alberi per ettaro gestiti meccanicamente e coltivati come si fa con le vigne, e solitamente trattati con simili quantità di sostanze chimiche. “Taccio sulla terza opzione, che riguarda degrado, abbandono e drastica riduzione delle superfici oggi destinate alla coltura in Italia.” (6)



Altri invece guardano con speranza alla crescita dell’agricoltura biologica, e di una nuova consapevolezza delle proprietà nutritive e salutistiche dell’olio d’oliva d’oliva e del fatto che oltre a non essere italiano, l’olio del supermercato è tutt’altro che extra-vergine, e di come tutto ciò sta creando una crescente domanda per prodotti di alta qualità. Tanti piccoli produttori stanno conquistando quote importanti di mercato a prezzi più che ragionevoli, spesso nel contesto dello sviluppo turistico dei territori su cui vivono e lavorano, uno sviluppo basato anche sulla valorizzazione degli ulivi secolari e dell’olivicoltura tradizionale.

Tutti questi cambiamenti stanno creando nuove problematiche e nuove possibilità, e il dibattito su come risolvere le prime e cogliere le seconde ha generato visioni del futuro dell’olivicoltura molto diverse tra loro. Con la sua posizione geografica al cuore del Mediterraneo e un terzo della produzione olivicola italiana, che nel mondo è seconda solo a quella spagnola, la Puglia è un luogo privilegiato dove osservare sul campo queste diverse visioni. Non esiste una sola olivicoltura in Puglia, viene spesso ripetuto quando si parla dell’argomento, ma tante forme diverse, dai fotogenici uliveti secolari della Piana degli Ulivi fino alle moderne coltivazioni intensive del nord Barese, passando per l’olivicoltura biologica delle famiglie della Valle d’Itria, i nuovissimi impianti superintensivi del Foggiano, e tante altre forme di olivicoltura quanti sono i territori e i modi in cui le persone hanno piantato e coltivato ulivi in Puglia.

C’è chi lo fa per produrre l’olio che consuma a casa, chi per arricchirsi e chi per mandare avanti l’azienda agricola di famiglia e continuare a pagarne i lavoratori e a prendersi cura degli ulivi di famiglia. Ognuna di queste diverse forme di olivicoltura ha la sua storia e il suo scopo, le sue potenzialità e i suoi limiti, e la sua capacità di adattamento ai cambiamenti in atto nel mondo. A detta di molti, non tutte li sopravviveranno, e in una regione dove più di 50 milioni di ulivi convivono con 4 milioni di persone, occupando quasi un quinto della superficie totale e producendo più di 500 milioni di euro di valore all’anno, l’olivicoltura è un elemento fondamentale dell’economia, del paesaggio e dell’identità collettiva, e quindi parlare del futuro dell’olivicoltura in Puglia vuol dire anche parlare del futuro di tutta la regione e di moltissime delle persone che ci vivono, il che rende il dibattito tra le varie visioni particolarmente acceso.

Così come una volta arrivato in Puglia il batterio Xylella fastidiosa si è adattato all’ambiente che ha trovato, passando dalla pianta di caffè ornamentale che forse lo ha trasportato dal Costa Rica alla distesa senza fine di ulivi del Salento, il dibattito sulla malattia che ha causato si è sviluppato nel contesto del dibattito più ampio sul futuro del settore che ha colpito, l’olivicoltura Pugliese, come diventa evidente ai tanti incontri pubblici sull’argomento a cui siamo andati in cerca di risposte, e dove la situazione appare ancora più complessa che nei campi.

Nelle sale consiliari e nei frantoi gremiti di olivicoltori preoccupati, i relatori iniziano sempre con una discussione scientifica del batterio e delle misure messe in atto per contenerlo, e subito dopo passano a discutere animatamente dei soldi della PAC, del rinnovamento dell’olivicoltura Salentina, dei benefici e svantaggi dell’agricoltura biologica o di una nuova varietà chiamata “Favolosa”, oppure degli impianti superintensivi e di come porteranno alla distruzione del territorio. Di solito si conclude accusando gli organizzatori di altri incontri di star mettendo a repentaglio il futuro dell’olivicoltura in Puglia, oppure di star usando l’emergenza per imporre un’altra visione di questo futuro, al che spesso qualcuno dal pubblico risponde con accuse altrettanto pesanti e la discussione degenera rapidamente.

Sembra quasi che mentre i contadini guardano alla Xylella e ai disseccamenti degli ulivi come la fine di una lunga storia, gli studiosi, politici, e attivisti che se ne occupano li vedano invece come l’inizio di una nuova, spesso dando l’impressione che l’intero dibattito sia in realtà un dibattito tra diverse visioni del futuro dell’olivicoltura in Puglia, derivate da diverse visioni del presente, di che cos’è questo settore oggi e quali sono i problemi che lo affliggono, a partire dalla causa dei disseccamenti degli ulivi.

Fino a questo punto, il dibattito su questo argomento si è polarizzato su due punti di vista: uno che vede la Xylella come l’unica causa dei disseccamenti, e un altro che vede il batterio come una tra tante possibili concause, insieme ad altri fattori come gli effetti dell’abuso di sostanze chimiche e di tecniche agronomiche dannose, l’impoverimento del suolo e il conseguente indebolimento degli alberi, e la proliferazione senza precedenti di parassiti, funghi e altri patogeni delle piante.

Scaturito dall’intuizione dei ricercatori dell’Università e del CNR di Bari, i quali hanno immediatamente verificato la presenza di Xylella fastidiosa nella zona colpita dai disseccamenti in Salento, il primo punto di vista si è quindi concentrato sul batterio, studiandone la patogenicità e l’insetto vettore che lo trasmette da un albero all’altro, la comunissima sputacchina. Il campo di ricerca è stato ulteriormente focalizzato dalle direttive dell’Unione Europea che definiscono la Xylella come un “patogeno da quarantena”, cioè un organismo la cui capacità di causare malattie è una minaccia a tutto l’ecosistema che deve essere monitorata, contenuta e possibilmente eradicata dal territorio Europeo, indipendentemente dal fatto che causi i disseccamenti degli ulivi oppure no.

Escludendo ogni altra concausa dei disseccamenti, anche attraverso una serie di ricerche sul campo, e descrivendoli esclusivamente come una malattia causata da Xylella fastidiosa, questo punto di vista sancisce la loro incurabilità, poiché nessuno ha ancora trovato un modo di eliminare questo batterio da una pianta infetta, neppure nel continente Americano dove da più di un secolo affligge molte coltivazioni. Nella vite, per esempio, la subspecie di Xylella presente in California causa la malattia di Pierce: le foglie si ingialliscono e cadono, e i rami seccano progressivamente fino a portare la pianta alla morte nel giro di qualche anno, in maniera molto simile a quello che sta succedendo agli ulivi del Salento e che, almeno in teoria, potrebbe succedere a molte altre coltivazioni come il mandorlo, le pesche e gli agrumi. Questo rischio, che è potenzialmente amplificato dalle differenze tra le varie subspecie e ceppi di Xylella scoperti fino ad ora, è alla base della sua classificazione come patogeno da quarantena, insieme alla mancanza di una cura scientificamente provata.

E se la malattia è incurabile, la fine dell’olivicoltura Pugliese come la conosciamo adesso è praticamente inevitabile, e può essere al massimo contenuta con l’eradicazione dei nuovi focolai d’infezione, cioè degli ulivi infetti e di ogni altro albero nel raggio di cento metri, e una guerra senza quartiere all’insetto vettore condotta attraverso l’utilizzo di “buone pratiche”, cioè arature, diserbo e l’uso di pesticidi a tappeto, nel tentativo di guadagnare tempo mentre si cerca una cura. Si parla già di diversificare le coltivazioni, mentre si ricercano varietà di ulivo resistenti al batterio da reimpiantare al posto degli alberi disseccati, in modo garantire un futuro alle aziende olivicole, o da innestare su quelli secolari e monumentali, per provare a salvare un elemento così importante del paesaggio. Due varietà sembrano resistere al batterio, almeno per il momento: il Leccino, una varietà già diffusa in Puglia, e la Favolosa, conosciuta anche come FS-17, il codice datogli dal laboratorio del centro Italia che più di un decennio fa l’ha sviluppata e brevettata con l’obiettivo di creare una varietà più produttiva e adatta agli impianti superintensivi.

Il punto di vista alternativo ha invece la sua origine nel lavoro di quei ricercatori e attivisti che, prima della conferma definitiva della presenza del batterio Xylella fastidiosa e della sua patogenicità, hanno cercato e trovato altre possibili cause dei disseccamenti, portando alla definizione iniziale della malattia come “CoDiRO”, il Complesso del Disseccamento Rapido dell’Olivo, che includeva l’insetto conosciuto come “rodilegno” e vari funghi patogeni. Il campo di ricerca si è progressivamente ampliato, includendo altri patogeni e parassiti delle piante (7), e portando ad uno sguardo più ampio sullo stato di salute degli ulivi del Salento, allargandolo ad una visione d’insieme delle conseguenze della natura monocolturale dell’olivicoltura Salentina e abbassandolo al suolo in cui tutti questi ulivi affondano le loro radici, che in molti casi è risultato talmente povero di sostanza organica da essere pericolosamente vicino alla desertificazione, analizzando il rapporto tra questo suolo, la sua flora batterica e gli ulivi. Questa analisi ha incluso le pratiche agronomiche adottate nel Salento e le loro radici economiche e storiche, includendo problemi che vanno ben oltre il batterio, l’olivicoltura e l’agricoltura stessa: il mercato dell’olio, l’abbandono delle campagne, e i cambiamenti in atto nell’ambiente, a iniziare da quelli causati dalle attività umane e dall’agricoltura intensiva.

Una delle pratiche su cui si è concentrata l’attenzione è la produzione di olio lampante, un prodotto di bassissima qualità il cui prezzo è talmente basso da costringere gli agricoltori a raccogliere le olive da terra, portandoli ad aggredire il suolo con diserbanti e scopatrici per rendere più veloci le operazioni di raccolta, rimuovendone la sostanza organica. Questo ha creato il tavolo da biliardo visibile sotto gli uliveti del Salento, il cui muschio verde è in realtà un allarmante segnale di degrado del suolo, tanto quanto il fatto che il prezzo dell’olio extra-vergine spesso scenda a pochissimi euro in più di quello lampante, che poi è una delle ragione per cui questa pratica antica esiste ancora, è un allarmante segnale di degrado del mercato dell’olio d’oliva.



All’interno di questa visione più sistemica dei disseccamenti, degli ulivi e dell’olivicoltura, la malattia è l’espressione di un insieme di concause e quindi ci sono, almeno in teoria, numerose possibilità di contrastarla agendo su queste concause, per esempio migliorando la condizione degli alberi in modo da permettergli di resistere al batterio attraverso altre “buone pratiche” come il ripristino della sostanza organica e della flora batterica del suolo, o la corretta potatura, il sovescio e l’uso di rimedi tradizionali per disinfettare gli alberi come il rame e lo zinco. Questo avviene quasi sempre nel contesto di un passaggio ad un’agricoltura biologica, meno intensiva e più agroecologica (8), eliminando lo sfruttamento delle piante e del suolo e le sostanze chimiche che avrebbe indebolito gli ulivi, preparando il terreno per l’epidemia. Secondo questo punto di vista gli alberi infetti non vanno tagliati ma curati, e la biodiversità del territorio, individuata dall’agroecologia come un elemento centrale della sua capacità di resistere alle malattie, va aumentata invece che ridotta ulteriormente dall’impiego massiccio di pesticidi e diserbanti e il reimpianto altrettanto massiccio di due sole varietà di ulivi resistenti.

Mentre il primo punto di vista è stato adottato da gran parte delle istituzioni locali e nazionali, con il consenso di una parte significativa della comunità scientifica, concentrando la ricerca e le misure adottate sul batterio Xylella fastidiosa, il secondo punto di vista è stato condiviso da una parte significativa della società civile e della popolazione, producendo una fortissima opposizione popolare a queste misure e numerose ricerche alternative sulle concause dei disseccamenti di ulivi. Gli insiemi di soluzioni, conoscenze e pratiche accumulati e generati dai due punti di vista costituiscono visioni molto diverse del futuro dell’olivicoltura in Puglia, fatte di scelte diverse su cosa salvare e come farlo, e su come rinnovare quello che non si può salvare.

In nome dell’emergenza Xylella e dell’incurabilità della malattia che causa, migliaia di ulivi sia infetti che sani sono stati abbattuti, arrivando a determinare per legge le varietà di ulivo che possono essere piantate nella zona infetta e a rendere obbligatoria la lotta al vettore e i suoi ripetuti trattamenti chimici, anche per le aziende biologiche, minacciando sanzioni penali e la perdita dei soldi della PAC per coloro che non dovessero ottemperare a questi obblighi. L’abolizione di tutti i vincoli legali, idro-geologici e paesaggistici viene richiesta a gran voce per accelerare l’eradicazione degli ulivi infetti, e si parla addirittura di abolire la necessità di avere un patentino fitosanitario per facilitare i trattamenti contro la sputacchina.

Dal lato opposto, invece, si sono viste migliaia di persone bloccare treni e superstrade per difendere ogni singolo ulivo, sulla base dell’idea che gli alberi malati si possono curare e quindi non devono essere eradicati, sopratutto quelli sani. Allo stesso tempo, la ricerca di modi di curare quelli malati ha generato una critica dell’intero sistema agricolo moderno e al suo rapporto con la società e con il territorio. Si richiede il divieto di diserbanti come il glifosato e si propone il un passaggio ad un agricoltura più naturale e resiliente, per esempio attraverso la creazione di gruppi di acquisto per permettere agli agricoltori del territorio di vendere i loro prodotti ad un prezzo ragionevole, e quindi essere in grado di investire le risorse e il lavoro necessario a coltivare gli ulivi e contrastarne il disseccamento, nell’ottica che la potenziale fine dell’olivicoltura tradizionale, del paesaggio e della biodiversità non è solo un problema degli olivicoltori, e quindi dobbiamo tutti contribuire alla cura degli ulivi.

Senza voler entrare nel merito dei due diversi punti di vista, i quali forse non si escludono nemmeno a vicenda, è difficile non rimanere colpiti dalla rapidità e intensità con cui fin dall’inizio dell’emergenza le loro differenze si sono cristallizzate in due schieramenti radicalmente opposti e in disaccordo su tutto. Questo processo viene amplificato ulteriormente dalle casse di risonanza dei social media e dai mezzi d’informazione, e dal fatto che poiché spesso si nega il diritto stesso della controparte di partecipare al dibattito in nome delle differenze irreconciliabili tra i due punti di vista, questo dibattito avviene esclusivamente in contesti separati, dove le rispettive argomentazioni non vengono discusse ma solamente negate. Le diverse soluzioni si trasformano in scenari apocalittici da evitare a qualsiasi costo, facendo del dibattito su una malattie delle piante uno scontro esistenziale sul futuro dell’intera regione.



In questa equazione a somma zero, tutte le proposte fatte per contrastare le concause dei disseccamenti degli ulivi, anche quelle la cui ricerca è stata finanziata dalla regione Puglia stessa, vengono regolarmente delegittimate come le inutili e controproducenti ricette di “santoni” equiparati agli oppositori dei vaccini e accusati di aver favorito la diffusione del batterio in nome di un ambientalismo fanatico, alimentando false speranze negli agricoltori e spingendoli ad opporre le misure di eradicazione e contenimento, per esempio attraverso innumerevoli ricorsi che hanno effettivamente paralizzato queste misure per lunghi periodi.

Se la Xylella, ripetutamente descritta come un “batterio killer” inarrestabile che avrebbe già infettato o ucciso decine di milioni di ulivi, è l’unica causa dei disseccamenti e gli effetti delle pratiche agronomiche e della natura monocolturale dell’olivicoltura Salentina non c’entrano nulla, allora vuol dire che non c’era nulla di sbagliato in quelle pratiche e in quella monocoltura, e che quindi l’unica soluzione possibile è contenere il batterio a qualunque costo, anche usando quantità immense di pesticidi e diserbanti, e poi impiantare varietà di ulivo in grado di resistergli, possibilmente in impianti ancora più intensivi. E siccome molti uliveti biologici del Salento sono stati ugualmente colpiti dai disseccamenti, inclusi quelli dei campi sperimentali dove si è provato a curarli agendo sulle concause, tutte le critiche all’uso smodato di sostanze chimiche e i concetti stessi di agricoltura biologica e agroecologia vengono derisi e descritti come frutto di oscurantismo antiscientifico.

A chi propone di ripristinare lo stato di salute degli ulivi smettendo per esempio di utilizzare il glifosato, un pericoloso diserbante usato massicciamente in Salento, e rimediando all’impoverimento del suolo e della sua flora batterica che il suo utilizzo ha causato, viene risposto che le piante colpite dal batterio non si possono ripristinare, che l’impoverimento del suolo non c’entra nulla con i disseccamenti e che il suolo del Salento non è affatto impoverito, perché il glifosato non causa nessun impoverimento del suolo ma anzi si può bere e ci sono dei video su Youtube che lo provano.

Dall’altra parte dell’equazione, l’idea stessa del batterio come concausa dei disseccamenti è solo il punto di arrivo di un percorso di opposizione tanto sistemico quanto il punto di vista che l’ha generato, in cui prima si è negata l’esistenza del batterio stesso, poi si è negato che c’entrasse con i disseccamenti, e infine che ne fosse l’unica causa.

In questo percorso, la Xylella è stata e viene ancora descritta da molti come un complotto, una frode e una mafia, ed è affrontata come un “attacco del capitale” alla Puglia ed equiparata all’ILVA di Taranto e al gasdotto TAP. Dopo tutto, la costruzione di entrambe queste infrastrutture ha richiesto l’eradicazione di migliaia di ulivi, e infatti la più recente è spesso indicata come uno dei motivi occulti di un’emergenza creata ad arte, per aggirare la legge regionale che protegge gli ulivi oppure per portare alla sostituzione dell’olivicoltura tradizionale, degli uliveti secolari e delle varietà tipiche del territorio con impianti superintensivi basati su varietà brevettate e di origine straniera.

I disseccamenti sono attribuiti esclusivamente alle concause e lo stesso collegamento tra il batterio e i disseccamenti è messo in discussione. Viene anche negato che vi sia alcuna epidemia in corso, per esempio sulla base del fatto che il monitoraggio della regione Puglia indica una percentuale minima di ulivi infetti dalla Xylella, e si accusano i ricercatori che lavorano sul batterio di volersi accaparrare i soldi stanziati per fronteggiare l’emergenza, la quale in ogni caso non è nemmeno veramente un’emergenza poiché dura da anni oppure perché non esiste alcuna epidemia.

E se per caso il batterio Xylella fastidiosa dovesse veramente esistere ed essere la causa dei disseccamenti degli ulivi, allora vorrebbe solo dire che è stato introdotto nel Salento intenzionalmente, per favorire le importazioni di olio tunisino oppure per i motivi descritti prima, portando ad una diffusissima sfiducia nell’operato delle autorità che ha generato abbastanza esposti da portare la magistratura di Lecce nel 2015 a mettere sotto inchiesta l’intera gestione dell’emergenza, indagando su politici, tecnici e ricercatori e sequestrando gli alberi infetti. Le 58 pagine del documento di sequestro hanno accusato le autorità sia di aver messo in atto misure inutili a contenere e eradicare il batterio, e sia di averle basate su una sua correlazione con i disseccamenti inventata, il tutto per un “progettato stravolgimento della tradizione agroalimentare e della identità territoriale del Salento per effetto del ricorso a sistemi di coltivazione superintensiva e introduzione di nuove coltivazioni d’olivo.”

Sperare che la magistratura risolva complessi problemi ambientali e sociali che la politica e la società non vogliono risolvere è una vecchia tradizione Italiana, ma lo scontro esistenziale evocato dagli esposti che hanno portato all’indagine può essere spiegato solo parzialmente dall’altrettanto tradizionale attaccamento agli ulivi di gran parte della popolazione della Puglia, l’importanza del suo settore olivicolo e la più che giustificata sfiducia verso le autorità, specialmente per quanto riguarda le questioni ambientali.

Allo stesso tempo, è difficile capire il rifiuto di molti degli scienziati che lavorano sulla Xylella, e delle autorità il cui operato si basa sul lavoro di quegli scienziati, di prendere in considerazione il ruolo di qualsiasi possibile concausa dei disseccamenti e il crescente numero di ricerche scientifiche sugli effetti negativi di diserbanti, pesticidi e agricoltura intensiva e sul rapporto tra la biodiversità di un territorio e la sua vulnerabilità ai patogeni.

Il livello di ostilità tra i due schieramenti fa infatti pensare più alla pentola del paziente di Freud che ad un dibattito razionale e produttivo su quella che è forse la più seria minaccia al nostro territorio dai tempi dei Turchi. Così come davanti alla richiesta di compensazione per una pentola presa in prestito e restituita rotta il paziente di Freud sosteneva contemporaneamente di aver restituito la pentola intatta, che la pentola era già rotta quando l’aveva presa in prestito, e di non aver preso in prestito nessuna pentola, i due schieramenti del dibattito sulla Xylella rifiutano sistematicamente ogni soluzione proposta dal punto di vista opposto, insieme all’analisi e ai dati che l’hanno prodotta, e all’esistenza stessa del problema che vuole risolvere.

Poco importa che il monitoraggio della regione Puglia, concepito sulla base delle direttive Europee che dettano il contenimento del batterio Xylella fastidiosa, abbia l’unico obiettivo di monitorarne l’espansione e quindi abbia luogo nelle aree dove il batterio non è ancora arrivato, e che in ogni caso risulta veramente difficile immaginare come ricercatori e attivisti che vivono e lavorano in Salento, letteralmente in mezzo agli ulivi disseccati, possano dire che non c’è alcuna epidemia nella regione. Allo stesso modo, a nessuno sembra importare che la difesa e il ripristino del suolo agricolo siano già da anni una delle condizioni per ricevere i soldi della PAC, e che nessuno ha mai proposto di toglierli alla stragrande maggioranza degli agricoltori che hanno ignorato queste condizioni, oppure che nessuna persona sana di mente berrebbe mai del glifosato, nemmeno la persona che ha detto una cosa del genere.

L’importante è contraddire il punto di vista opposto, il che ha anche l’indubbio pregio di confermare tutti i propri convincimenti, creando due discorsi separati che si incastrano senza mai sovrapporsi, come i pezzi di un puzzle. Il problema è che i pezzi sembrano venire da due scatole diverse, e il risultato è un dibattito confuso in cui le soluzioni proposte al problema della Xylella e dei disseccamenti, e le visioni del futuro dell’olivicoltura che hanno generato, si confondono con le diverse visioni del problema che dovrebbero risolvere, e con le diverse visioni dell’olivicoltura che le hanno generate a loro volta. Questa confusione crea un cortocircuito inestricabile in cui molto spesso è difficile distinguere le premesse dalle conclusioni di una certa tesi, e in cui i problemi che affliggono gli olivicoltori e gli ulivi vengono completamente oscurati se non addirittura negati, in nome delle differenze irreconciliabili nel modo di vederli.

In questo scontro esistenziale, accettare qualsiasi elemento del discorso opposto, non importa quanto evidente o supportato dalla ricerca scientifica e dal buonsenso, diventa praticamente impossibile, facendo degenerare la discussione e distorcendo l’intero dibattito, un po’ come la distesa senza fine di ulivi del Salento e la sua natura monocolturale hanno fatto sì che il batterio della Xylella trovasse un ambiente ideale per riprodursi e produrre un’epidemia devastante.



Se c’è una cosa che abbiamo capito cercando risposte tra gli ulivi disseccati e a tutti questi incontri pubblici sulla Xylella, è che i problemi della Puglia vanno ben oltre il batterio, gli ulivi, e persino l’agricoltura e il suo rapporto con il territorio e la società: tutte queste cose sono collegate tra loro, in un sistema complesso determinato da tutti questi rapporti.

Questa complessità non deve portarci, presi dal panico o dalla ricerca di una soluzione finale, a negare la presenza del batterio Xylella fastidiosa e i disseccamenti degli ulivi oppure problemi altrettanto reali come il prezzo troppo basso che paghiamo per l’olio d’oliva, il fatto che che la nostra olivicoltura sia anche una monocoltura, e che l’agricoltura moderna e intensiva stia cambiando il territorio su cui viviamo, forse in maniera irreversibile.

Noi continueremo a crescere, avvicinandoci al momento in cui toccherà a noi prenderci cura degli ulivi di famiglia in prima persona, imparando come farlo e forse decidendo di piantarne altri non per noi stessi ma per i nostri figli e per quelli che verranno dopo di loro. Allo stesso modo, sia il batterio Xylella fastidiosa che i tanti altri problemi che affliggono l’olivicoltura in Puglia ci richiedono di prenderci cura degli ulivi del nostro territorio in maniera collettiva, prendendo decisioni politiche e non in nome di un’idea astratta di scienza, senza negare né il cambiamento determinato del batterio né quelli che hanno determinato le concause dei disseccamenti degli ulivi, se vogliamo che ci sia un futuro per l’olivicoltura in Puglia.


(1) L’insieme di agricoltori, trasformatori, rivenditori e tanti altri che contribuiscono a portare il cibo dalle persone che lo producono a quelle che lo consumano.

(2) In Olivi e Olio in Puglia attraverso i secoli: diffusione, tecniche colturali ed estrattive il professore Salvatore Camposeo descrive gli effetti sull’olivicoltura dell’espansione dell’impero: “si assiste alla netta contrazione delle esportazioni locali che cedono il passo a quelle delle province consolari. […] A partire dall’età augustea e fino al III-IV secolo, infatti Roma importa principalmente olio dalla Baetica, l’odierna Andalusia; successivamente dall’Africa Proconsolaris, corrispondente all’odierna Tunisia”, cioè le stesse regioni da cui oggi proviene gran parte delle importazioni di olio d’oliva in Italia, a testimonianza del fortissimo rapporto tra gli ulivi e i territori su cui viene coltivato.

(3) La Grande Distribuzione Organizzata. Grazie al controllo di gran parte della domanda, la GDO può imporre prezzi bassissimi ai produttori, i quali ricevono una parte minima del prezzo di vendita e quindi sono costretti ad abbassare i costi di produzione al massimo.

(4) Un olio prodotto mischiando oli diversi, che possono anche essere di diversa qualità o provenienza, e addirittura non essere tutti d’oliva.

(5) La PAC è un elemento centrale dell’Unione Europea, di cui utilizza un terzo dell’intero bilancio. La “riforma Fischler” della PAC del 2003 ha introdotto il “disaccoppiamento”, scollegando i pagamenti dalla produzione e trasformandoli in un sussidio ai produttori, un cambiamento che ha detta di molti ha contribuito al declino delle tecniche agronomiche, sebbene questi pagamenti fossero in teoria soggetti al rispetto della “condizionalità”, una serie di criteri da rispettare tra cui la sostenibilità ambientale delle tecniche utilizzate.

(6) Angelo Godini, L’olivicoltura italiana tra valorizzazione e innovazione in I Georgofili. Quaderni: Problemi e Prospettive dell’Olivicoltura, Accademia dei Georgofili, Firenze 2010.

(7) La professoressa Antonia Carlucci dell’università di Foggia ha raccontato ad un evento sulle malattie degli ulivi tenuto a Martano nel 2018 di aver accumulato un’intera cella frigorifera di colture di funghi sconosciuti rinvenuti negli ulivi del Salento durante le sue ricerche sui disseccamenti.

(8) L’agroecologia è una visione dell’agricoltura nel contesto dei rapporti ecologici e sociali che costituiscono il territorio.