E’ una calda serata di giugno, e mi trovo in una piazzetta nel rione Tamburi di Taranto con un gruppo di donne dell’associazione ambientalista Altamarea. La piazza risuona delle grida dei bambini che giocano, mentre le loro madri chiacchierano sulle panchine. In questo quartiere la sera non c’è molto altro da fare e ora, a quanto pare, non si può più fare nemmeno quello: un’ordinanza del sindaco Stefàno ha vietato ai bambini di giocare negli spazi pubblici dei Tamburi a causa delle concentrazioni preoccupanti di agenti inquinanti trovate nel terreno. Le ambientaliste sono venute per parlarne con gli abitanti del rione, ma la risposta più comune è semplicemente “siamo stanche”, non si capisce se dell’inquinamento o della lunga serie di inutili denunce, allarmi e ordinanze sull’argomento.
L’atmosfera ai Tamburi non è delle migliori, e non è un modo di dire: le ciminiere dell’acciaieria ILVA si stagliano appena oltre le palazzine, e tutto è ricoperto da uno strato di polvere rossastra che viene dagli immensi depositi minerali a cielo aperto a poche centinaia di metri da noi. Ai Tamburi si può capire cosa stanno facendo nell’acciaieria dai fumi che si respirano, e le ciminiere dell’ILVA le hanno persino messe nella chiesa della parrocchia, benedette dal Gesù Divin Lavoratore insieme a degli operai – il che almeno è forse necessario, visto l’altissimo tasso di mortalità degli operai ILVA. Gli abitanti del rione, in gran parte operai o ex-operai dell’acciaieria, sono conosciuti come i “morti che camminano”, e questa sera avrei capito almeno un po’ il perché di questo macabro soprannome.
Parlando con una giovane madre che si era inizialmente scagliata contro le ambientaliste dicendogli di andare a disturbare qualcun altro, “che tanto è tutto inutile”, cerco di capire se le sia rimasta qualche speranza che le cose possano cambiare, e che un giorno non debba più avere paura dell’aria che i suoi due figli respirano. “Qua si parla, si parla, e tanto non si conclude mai niente”, dice lei. “E noi siamo stanche” aggiunge poi, e si allontana per l’ennesima volta per dire al figlio di non allontanarsi, di non farsi male, e soprattutto di non sporcarsi i vestiti, “che è pieno di polvere”.
Mi sto sconfortando. “E allora che si fa, aspettate e basta?”, le chiedo mentre le ambientaliste continuano a parlare al megafono di percentuali di benzo(a)pirene, di danni genotossici e di trapianti di midollo, tutte cose che sembrano lontane secoli dalla rassegnazione che accompagna la risposta che ricevo: “noi siamo abituati ad aspettare; aspettiamo un lavoro, aspettiamo una casa, aspettiamo che puliscono le strade, aspettiamo tutto”. E mentre si allontana per l’ennesima volta per riagguantare suo figlio, mi chiedo come una madre possa essere così rassegnata sul proprio futuro e su quello dei propri figli.
“Vabbe’, ma le cose prima o poi cambieranno?”, le chiedo ancora, ma la riposta non è quella che mi aspetto: “E anche se fosse? Anche se chiudono l’ILVA, che cambia? Io l’affitto non so come pagarlo comunque, e i miei figli dove li mando?”. Ha ragione lei, chiudere l’ILVA non risolverebbe praticamente niente, anche se mai succedesse. E guardando i bambini che si rincorrono attorno a noi, sappiamo entrambi che l’ordinanza del sindaco è solo un inutile pezzo di carta, che i bambini continueranno a giocare e ad avvelenarsi per le strade dei Tamburi, e che probabilmente non cambierà nulla. “E che deve cambiare adesso?”, aggiunge lei, “tanto noi siamo già morti”.
(Pubblicato in Largo Bellavista)