Di Sara Manisera e János Chialá.
Mohammed Ghani, 22 anni, non riesce a nascondere la sua preoccupazione. Da oltre due mesi, ha smesso di lavorare come bracciante nella raccolta di agrumi nella piana di Gioia Tauro e il suo ultimo stipendio, in nero, risale a fine febbraio. “Ogni anno a fine stagione mi sposto a Saluzzo ma adesso come faccio?”, racconta in francese, “Non possiamo continuare a vivere in questa situazione, senza acqua, senza cibo, senza lavoro, senza niente”.
Come altre centinaia di persone, Mohammed, originario del Mali, è bloccato nel ghetto di Taurianova a contrada Russo, in provincia di Reggio Calabria. Anche in tempo di Covid-19, in campi come quello di Taurianova, si continua a vivere senza acqua corrente, senza docce, senza servizi e senza elettricità, se non quella assicurata da un generatore fatiscente. Fra la paura dell’epidemia, il lavoro che manca, insieme alla difficoltà di acquistare cibo, la vita nel ghetto si sta facendo complicata. Domenica 8 aprile un ragazzo maliano di 31 anni è morto in seguito all’aggressione di un connazionale all’interno del campo di Taurianova. La preoccupazione maggiore per Mohammed, tuttavia, sembra quella dei documenti e del lavoro. “Certo che abbiamo paura del virus”, dice. “Non abbiamo acqua potabile, né le docce. La spazzatura non la raccoglie nessuno e siamo obbligati a prendere l’acqua in un pozzo ma abbiamo più paura della fame. Come facciamo a lavorare? Senza documenti non possiamo neanche spostarci”, racconta.
La situazione legale delle persone, principalmente africani, che vivono nel ghetto di Taurianova, è molto diversificata: c’è chi ha fatto ricorso per ottenere l’asilo, chi è rimasto escluso dalla protezione umanitaria, in seguito all’approvazione del decreto sicurezza da parte del primo governo Conte, chi ha ricevuto un diniego dalla commissione e chi ha il permesso di soggiorno regolare in scadenza ma non avendo né domicilio, né residenza rischia di diventare irregolare.
Il “Decreto Salvini”, (decreto legge 113/2018), il pacchetto di misure in tema di immigrazione e sicurezza pubblica, e la discrezionalità di Questure e Comuni nel recepire e interpretare le norme, hanno di fatto creato un circolo vizioso nel quale molte persone si sono trovate nell’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno o nell’impossibilità di convertire il permesso di soggiorno a causa del requisito della residenza.
Mohammed è in questa situazione. Ha un permesso di soggiorno scaduto che non è riuscito a rinnovare perché non ha la residenza. E così è finito, come migliaia di altre persone, nella categoria degli “invisibili”, stranieri irregolari presenti in Italia che vivono ai margini. Non sono solo braccianti. Ci sono anche colf, badanti e baby sitter. Secondo le stime dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) il numero degli irregolari potrebbe raggiungere la quota di 600.000 persone entro la fine del 2020. 600 mila invisibili senza accesso all’assistenza socio-economica, privi di assistenza sanitaria e esclusi da qualsiasi possibilità di monitoraggio durante l’epidemia.
Se in tempi normali, queste persone invisibili potevano continuare a lavorare e a spostarsi liberamente sul territorio italiano, oggi, con l’emergenza Covid-19, le contraddizioni della loro situazione stanno esplodendo, e questo è specialmente vero nel settore agro-alimentare. Con il lockdown e la chiusura delle frontiere è difficile muoversi; migliaia di lavoratori stagionali sono bloccati nell’est Europa e altrettanti lo sono nei vari ghetti d’Italia. L’assenza di lavoratori rischia di mettere in ginocchio una filiera fondamentale, quella del cibo e così si scopre che quei lavoratori stranieri sono fondamentali al sistema agricolo.
Secondo le stime della Coldiretti con la chiusura delle frontiere nell’Unione Europea mancano quasi 1 milione di lavoratori stagionali nelle campagne dei principali Paesi agricoli, con l’Ue che rischia di perdere quest’anno l’autosufficienza alimentare e il suo ruolo di principale esportatore mondiale di alimenti per un valore di 151,2 miliardi di euro. La situazione più grave, segnala la Coldiretti, è in Italia, da cui arriva oltre un quarto di prodotti made in Italy raccolto nelle campagne da 370 mila lavoratori stranieri regolari che arrivano ogni anno dall’estero, fornendo il 27% del totale delle giornate di lavoro necessarie al settore. Coldiretti chiede di aprire le frontiere per permettere a lavoratori stagionali dall’est Europa – Romania e Moldavia – di entrare in Italia. La ministra delle Politiche Agricole e Forestali Teresa Bellanova – oltre ad aver lanciato la proposta di impiegare lavoratori in cassa integrazione e disoccupati – porta avanti la trattativa con Bucarest per aprire i “corridoi verdi”, per facilitare gli spostamenti degli stagionali dall’est Europa, una soluzione adottata anche da Germania e Gran Bretagna, in crisi per la mancanza di lavoratori nel settore agricolo.
Non solo braccia: regolarizzare è una questione di diritti
“L’urgenza è quella di regolarizzare e aprire la mobilità ai braccianti già presenti in Italia, garantendo loro posti dignitosi in cui dormire e un giusto reddito”, spiega Ilaria Zambelli, operatrice di Medici per i Diritti Umani (MEDU), un’organizzazione umanitaria che da anni assiste con la clinica medica mobile e lo sportello legale i braccianti nella piana di Gioia Tauro.
In una lettera-appello, numerose organizzazioni e associazioni impegnate sul fronte della solidarietà – come Oxfam, Arci, Acli Terra, Caritas italiana, Medu, Libera, Avviso Pubblico, l’associazione Jerry Masslo, l’ex Canapificio di Caserta – hanno chiesto alle massime cariche dello Stato di tutelare e di regolarizzare le persone che sono costrette a vivere e a lavorare in condizioni di irregolarità, in particolar modo in agricoltura e nel lavoro domestico.
“In queste settimane abbiamo chiesto con forza la regolarizzazione come soluzione al problema agricolo. Perché non possiamo regolarizzare le persone che abbiamo sul posto che lavorano nei campi, senza contratto, sfruttati come bestie?”, afferma Jean René Bilongo dell’Osservatorio “Placido Rizzotto” della FLAI-CGIL. Secondo l’Osservatorio, infatti, ci sono già tra i 160-180mila braccianti nei ghetti di Rosarno, di Borgo Mezzanone (Foggia) nell’Agro-Pontino o nella piana del Sele, in condizioni igienico-sanitarie precarie. “Chiediamo che questi ghetti, questi accampamenti siano svuotati per tutelare la salute delle persone che ci abitano e di tutti i cittadini. In questi accampamenti dove è impossibile lavarsi le mani, figuriamoci il distanziamento sociale, cosa può succedere? Succede che può esplodere un focolaio dell’epidemia”.
Per Marco Omizzolo, sociologo, presidente di Tempi Moderni e ricercatore di Amnesty International la proposta di aprire corridoi dall’est Europa deve essere accompagnata da un riconoscimento dei diritti. “Non si possono importare persone per pagarle poco e sfruttarle nelle nostre campagne. Noi denunciamo il caporalato e lo sfruttamento come elementi tipici di un sistema di produzione, quindi l’idea di importare braccia e farle lavorare senza controlli e senza diritti è preoccupante. L’elemento centrale adesso è regolarizzare le persone già presenti in Italia, spesso irregolarmente soggiornanti perché privi di permesso di soggiorno, che vivono in condizioni di emarginazione sociale, sfruttamento e privazione di diritti. Questo servirebbe a farli uscire dal cono d’ombra, dalla gestione criminale operata da organizzazioni criminali, padroni e caporali e garantirebbe loro il diritto alla salute che in questa fase è centrale”.
Di fronte all’evidenza della crisi in corso, persino le grandi organizzazioni di coltivatori come la Coldiretti stanno riconoscendo il bisogno di una forma di regolarizzazione dei braccianti, per esempio richiedendo l’allargamento dell’utilizzo dei voucher al lavoro agricolo che, nelle parole del vicepresidente della Coldiretti della provincia di Matera Pietro Bitonti, “potrebbe allargare la platea degli operatori impiegabili sul campo, attraverso l’opportunità di poter usufruire di una prestazione lavorativa occasionale, con un sistema semplificato anche per quanto riguarda gli aspetti degli oneri previdenziali”.
Tuttavia questa proposta si scontra con la diffidenza delle organizzazioni sindacali. “Dal nostro punto di vista”, ha commentato Jean Renè Bilongo, “il voucher nasce come strumento per il lavoro accessorio, mentre il lavoro ordinario va pagato e i contratti vanno applicati, altrimenti se facciamo delle deroghe non ne usciamo più. I voucher non hanno senso, se non quello di indebolire ulteriormente la parte più fragile della filiera, ovvero i lavoratori”.
Riequilibrare il potere della grande distribuzione organizzata
Se il caporalato è parte integrante del sistema agricolo, è necessario, però, allargare lo sguardo e analizzare i meccanismi che generano il caporalato e lo sfruttamento. Lo sottolinea Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope, il programma migranti e rifugiati della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, attivo nella piana di Gioia Tauro, “Ora che c’è il problema delle forniture di cibo nei supermercati con il Covid-19, si scopre che questi lavoratori servono. E mentre la grande distribuzione continua ad aumentare i profitti in queste settimane, i salari restano bassi. Perché i prezzi degli alimenti aumentano e i salari no? Se ci fossero salari dignitosi, anche gli italiani probabilmente sarebbero disposti a lavorare in campagna. È necessario riequilibrare la filiera agricola partendo dalla responsabilità di impresa della grande distribuzione organizzata”, afferma Piobbichi.
Come hanno denunciato in questi anni attraverso numerose inchieste, Stefano Liberti e Fabio Ciconte, giornalisti e autori de “Il grande carrello”, le pratiche sleali operate da alcuni operatori della grande distribuzione organizzata – politiche del sottocosto, aste al doppio ribasso solo per citarne alcune – si ripercuotono su tutta la filiera, sui fornitori e i produttori agricoli che, strozzati dai prezzi bassi imposti dalla GDO, si trovano costretti a svendere il loro prodotto e a risparmiare sulla manodopera.
“Perché si dice che bisogna riequilibrare e dare responsabilità di impresa alle catene della GDO?”, spiega Liberti, raggiunto al telefono, “Perché le catene della GDO hanno un potere contrattuale molto più elevato rispetto ai fornitori, perché hanno fatturati importanti, garantiscono l’accesso al mercato e in questa fase ancora di più, essendo l’unico accesso al mercato per i fornitori agricoli e l’unico accesso al cibo per i consumatori. Per far fronte a uno squilibrio di potere è necessario un apparato normativo”.
La direttiva europea sulle pratiche sleali nel settore agroalimentare approvata sia dal Consiglio Europeo che dal Parlamento Europeo nel marzo del 2019 va in questa direzione ma deve essere recepita dagli stati membri, inclusa l’Italia. Inoltre, come ricorda anche Omizzolo, è necessario che il Senato approvi il progetto di legge 1549-A, che vieta le aste al doppio ribasso nell’acquisto di prodotti alimentari, votato per ora solo dalla Camera dei Deputati. “Vietare le aste al doppio ribasso è necessario per liberare gli imprenditori agricoli onesti dal ricatto di un pezzo importante della GDO”.
Filiere corte, etichetta narrante e auto-organizzazione
Oltre al controllo dell’accesso al cibo dei consumatori, il potere della GDO si fonda anche sull’opacità delle lunghe e complesse filiere agro-alimentari, un’opacità che lascia gli stessi consumatori all’oscuro su dove e come vengono prodotti i beni alimentari che acquistano, impedendo di usare il loro potere d’acquisto per promuovere aziende virtuose e punire pratiche sleali e di sfruttamento.
Tra i possibili antidoti a queste opacità ci sono l’etichetta narrante e le filiere corte. La prima permetterebbe di dare informazioni corrette al consumatore rispetto a tutta la filiera del valore. La seconda permetterebbe di ridurre la distanza tra produttore e consumatore. Ne è un esempio il lavoro dell’Emporio FuoriMercato dello spazio di mutuo soccorso Bread & Roses di Bari. Come altre realtà che da anni lavorano alla creazione di alternative alla GDO, questi attivisti hanno deciso di reagire attivamente alla pandemia in corso, attraverso un circuito di distribuzione a domicilio di prodotti agricoli genuini coltivati nel loro orto urbano. “Stiamo distribuendo all’incirca 50 cassette di prodotti a settimana”, spiega Gianni de Giglio, 41 anni, “permettendo così a una decina di piccoli produttori di continuare a vendere i loro prodotti, nonostante la chiusura dei mercati urbani decretata dalle autorità”.
Se è vero che il Covid-19 ha svelato tutte le contraddizioni del sistema agricolo, dall’altra parte questa emergenza può trasformarsi in un’opportunità di cambiamento. La regolarizzazione dei braccianti stranieri, la regolamentazione del potere della GDO e la promozione di filiere corte possono essere soluzioni reali a problemi che esistevano già molto prima della diffusione del Covid-19. Ma le decisioni devono essere prese in queste settimane, avverte Omizzolo, “Se non si agisce subito, ci potrebbe essere un grave danno al sistema agricolo italiano, sia in termini di diritti riconosciuti ai lavoratori, sia in termini di diritti riconosciuti ai contadini e agli imprenditori onesti. E in quel caso si rafforzerebbero i sistemi criminali. Per questo le istituzioni devono agire in fretta”.
Pubblicato su Open Migration
(Fotografia di Arianna Pagani)